04.05.17 – Riflessioni sulla Festa del lavoro … per chi ce l’ha –
Ogni I Maggio è un’occasione per riflettere sul mondo del lavoro e fare bilanci. Si tratta davvero della Festa del lavoro o del “ricordo del lavoro”? L’Italia conta oltre 3 milioni di disoccupati e circa 10 milioni di poveri; la disoccupazione è schizzata al 12% ed al 40% quella giovanile (15-24 anni).
I dati diventano, purtroppo, ancor più sconfortanti se declinati al femminile. In Italia solo il 47,3% di donne lavora ed il divario diventa ancor più crescente se le donne hanno figli. Nel 2016 quasi la metà delle lavoratrici tra 25 e 49 anni (45,1%) con almeno tre figli ha lavorato part-time contro il 7,0% degli uomini nella stessa situazione.
Questi dati nel 2016 hanno fatto retrocedere l’Italia di 9 posizioni, assestandola al 117° posto su 147 paesi quanto al gender gap (ed al gender pay gap) nel mondo del lavoro.
I dati confermano la difficoltà di conciliare l’occupazione con la prole, tanto da spingere molte madri a dimettersi. Peraltro, la prevalenza di contratti a tempo determinato rende impossibile una stima delle madri che smettono di lavorare dopo il parto.
Una indicazione viene, tuttavia dal servizio ispettivo del Ministero, chiamato a verificare se le dimissioni presentate da una dipendente in gravidanza e nei primi tre anni di vita del bambino siano genuine e non frutto di pressioni o comportamenti illegittimi. Nel 2016 sono state 25.520 le madri che hanno presentato dimissioni volontarie (tremila in più rispetto al 2015): prevalentemente impiegate ed operaie e per metà con una anzianità inferiore a tre anni. Cosa spinge le donne a prendere questa decisione? L’assenza di asili nido per i piccoli, la difficoltà di conciliare la cura degli anziani e dei disabili, l’impossibilità di ottenere un orario di lavoro consono alle proprie esigenze, il mancato accoglimento al nido, l’elevata incidenza dei costi di assistenza al neonato. Ma c’è anche chi indica la mancata concessione del part-time o la semplice modifica dei turni come motivazione.
Per chi si rifiuta (o, semplicemente, non ha un principale abbastanza “accorto”), può arrivare il licenziamento che, però, di rado viene contestato, anche quando se ne avrebbe il diritto. Ricordiamo che prima della riforma Fornero, la reintegra per i licenziamenti senza giusta causa era prevista sempre; col Jobs act solo se avvengono durante la maternità o sono discriminatorie. Ma il problema è che c’è tutta una zona grigia difficile da dimostrare, perché l’onere della prova spetta al dipendente. E la verità è che dopo il primo anno di vita del bambino, la madre lavoratrice viene sostanzialmente abbandonata. Il Servizio Ispettivo del Ministero del lavoro in Basilicata nel 2016 ha verificato la presenza di 197 dimissioni, di cui 196 presentate da donne, la maggioranza delle quali le ha spiegate con la difficoltà di conciliare la maternità con il lavoro; altre hanno riferito che la causa è da ascrivere ai costi elevati degli asili nido, altre con l’assenza di nonni che tenessero i bambini ed altri con la mancata concessione di flessibilità oraria.
In Basilicata, dal Rapporto sulla situazione del personale riferito ad aziende medio-grandi, si evince che l’occupazione femminile è particolarmente rara nelle aziende potentine, dove si assesta appena al 25,3%.
La sproporzione di genere tra occupanti più rilevante emerge nell’industria dove la tradizione di occupazione maschile è legata anche a caratteristiche di lavoro svolta. Dal punto di vista contrattuale, si privilegia il tempo parziale e quasi tutta l’aspettativa per maternità è ad appannaggio delle donne, evidenziando lo scarso successo del congedo di paternità.
Laddove il papà decida di esercitare il suo diritto di cura nei confronti del neonato, rischia di attirare le sanzioni del proprio datore di lavoro . E’ di questi giorni il licenziamento di un lavoratore lucano avvenuto a seguito di richiesta di congedo parentale.
In questo contesto, si deve fare i conti anche con il problema della sicurezza sul lavoro. Invero, non si hanno dati certi sul numero di morti sul lavoro nel nostro Paese perché l’Inail elabora e rileva soltanto i dati che riguardano i propri associati. Solo in Lombardia nel 2016 sono morte 120 persone mentre stavano lavorando. Una ogni 3 giorni.
Sono in aumento anche le tecnopatie e le malattie c.d. professionali, ovvero causate da lavori rischiosi e usuranti.
Di lavoro si dovrebbe vivere, non ammalarsi o, addirittura, morire: si muore nei cantieri, nelle industrie, sulle strade e nei campi, come è accaduto nei mesi scorsi a quella bracciante agricola, morta di freddo e di stenti, che si recava sui campi per guadagnare pochi euro all’ora.
A questo dobbiamo aggiungere il lavoro nero, lo sfruttamento dei diritti dei lavoratori, che negli anni, invece di aumentare, vengono sistematicamente ridotti. Penso al caporalato agricolo che schiavizza migliaia di persone nei campi o agli eserciti di manodopera invisibile e clandestina impiegati nell’edilizia.
Un ulteriore gap della differenza di salario è data tra le aree geografiche. E’ emblematico il dato che evidenzia come a Bolzano ci sia il più alto tasso di occupazione associato al primato della busta paga più pesante.
Di contro, la provincia italiana che ha il più basso tasso di occupazione e’ Reggio Calabria, dove lavorano solo 3,7 persone su 10; il resto del Sud della nostra Penisola non si distanzia molto essendo occupate meno di 4 persone su 10.
Questi dati non sono sfuggiti alla Commissione Europea che nei giorni scorsi ha presentato il c.d. pilastro dei diritti sociali che ha lo scopo di rimuovere gli ostacoli che impediscono la crescita occupazionale. Il documento presenta venti principi fondamentali per sostenere il buon funzionamento e l’equità del mercato del lavoro e dei sistemi di protezione sociale. Questo importante documento servirà da bussola per il nuovo processo di convergenza verso migliori condizioni di vita e di lavoro in Europa.
I principi ed i diritti sanciti dal pilastro sono articolati in 3 categorie: pari opportunità; condizioni di lavoro eque; protezione ed inclusione sociale.
Alla luce di quanto esposto, si comprende bene come la festa del I Maggio sempre di più rappresenti un momento di riflessione su un problema sociale importante quale la mancanza di lavoro.
Tutti coloro che hanno responsabilità, in primo luogo le Istituzioni, hanno il dovere di ripiegarsi su questi dati affinché una nuova luce si possa intravedere in fondo al tunnel.
Avv. Ivana Enrica Pipponzi
Consigliera regionale di parità effettiva per la Basilicata